Da oltre dieci anni scrivo per il web e per la carta stampata, e faccio libri e guide. Buttar giù parole, e pronunciarle in pubblico, come si suol dire, è il mio mestiere. Vivo di questo. È una professione artigianale, che svolgo nel privato del mio laboratorio, ma che spesso presento davanti a molta gente. Col pubblico ho una certa dimestichezza, insomma.
Eppure alla prima presentazione de Il respiro delle grotte, durante l’incontro internazionale di speleologia di Casola Valsenio, un mese fa, ero proprio emozionato. Il palco del Teatro Senio era immerso nell’atmosfera magica di Speleopolis: davanti a me, nel buio della sala, brillavano centinaia di occhi di speleologi, compagni di esplorazioni e avventure in giro per il mondo. Sapevo di essere a casa, avvolto in una grande famiglia, ed era proprio questo a mettermi apprensione: presentavo agli speleologi un libro di speleologia. Come vuotare un sacco di farina in casa del fornaio.
Se è andata bene, è stato merito di Max Goldoni, che ha letto brani del libro, e del maestro Daniele Faziani, che li ha musicati col suo sassofono morbido e profondo. Grazie.
Questo libro l’ho dedicato alla passione che mi trascina da oltre vent’anni, e che ha segnato e cambiato la mia vita: la speleologia. Varcai la porta del mondo sotterraneo nel lontano inverno del ’92, col Gruppo Speleologico del Matese, e da allora non ho più smesso. Il richiamo del buio è irresistibile. Andar per grotte è molto più che cacciarsi dentro budelli stretti, al freddo, al buio, in posti umidi e lontani dal sole. La speleologia è soprattutto esplorazione. È entrare in luoghi mai visti, percorrerli e illuminarli per la prima volta.
Se escludiamo la perlustrazione del fondale degli oceani, l’attività degli speleologi è l’ultima frontiera dell’esplorazione geografica sul pianeta Terra. Le montagne sono state tutte salite, e comunque fotografate dai satelliti. Per trovare posti nuovi occorre andare nello spazio; e pure lì, entro certi limiti, si va verso luoghi già individuati, posizionati. Quando l’uomo mise piede per la prima volta sulla Luna, calpestò una superficie che aveva già osservato, seppure a distanza.
Le grotte no: prima che qualcuno ci entri per la prima volta, praticamente non esistono. Sono luoghi completamente sconosciuti: nessuno li ha mai visti prima. Lo studio di una montagna può farne supporre l’esistenza, si possono fare ipotesi sulla lunghezza e sulla profondità degli abissi che vi si celano, ma non si può stabilire se essi siano accessibili o percorribili, quanto siano estesi, se siano stretti o larghi, asciutti oppure allagati. Hanno grandi ambienti? si sviluppano in gallerie orizzontali o inclinate? precipitano in pozzi vertiginosi? No, delle grotte non si può sapere nulla, prima che qualcuno le esplori. La speleologia aggiunge pezzi nuovi alla geografia del mondo noto.
Più volte, questa attività è stata definita grossolanamente «alpinismo all’ingiù». Ma no, l’alpinismo non c’entra proprio niente. Con la speleologia ha in comune soltanto qualche attrezzatura. Per il resto, sono due mondi immensamente diversi: l’alpinista punta a raggiungere la vetta; lo speleologo, invece, il fondo vuole superarlo. Andare oltre una vetta non è possibile, perché la vetta è il punto più alto di una montagna, il luogo più elevato raggiungibile; ed è un punto noto. Il fondo no: è il posto più lontano che sia stato raggiunto dentro una grotta, è un limite esplorativo, e spesso lo si può superare. Il fondo non è l’opposto algebrico della vetta, come la profondità non lo è dell’altezza.
Per lavoro viaggio molto. Ho imparato a godere di una partenza, a sentirne il sapore agrodolce, quel misto di spinta e resistenza, di entusiasmo muscolare e al tempo stesso mollezza nelle gambe, quella voce interiore che invita ad andare, contrapposta all’altra, che chiede di restare. Conosco piuttosto bene l’ebbrezza del vagare, del vedere posti nuovi, di descriverli, fotografarli per poi raccontarli; mi piacciono i giorni girovaghi in cui l’unico compito è quello, appunto, di stare in giro, e l’unico debito da saldare è con la mia curiosità. Ho imparato anche il piacere di tornare, perché è il ritorno, in fin dei conti, l’anima del viaggio: senza la prospettiva del ritorno, una partenza avrebbe ben poco fascino, e sarebbe soltanto fonte di ansia.
Ecco, da viaggiatore per così dire di professione, mi prendo la licenza di affermare che la speleologia esprime la massima sintesi del viaggiare. Anche una semplice escursione – chiamiamola così – in grotta, racchiude in sé tutti gli elementi del viaggio: la partenza/ingresso, il vagare in posti nuovi, il ritorno/uscita. L’ingresso e l’uscita di una grotta, sono per lo speleologo lo stesso posto; come per il viaggiatore la porta di casa. Il viaggio comincia a casa, ed è a casa che finisce. Quando varchiamo la soglia di una grotta, noi speleologi la chiamiamo ingresso; e quando la varchiamo nuovamente in senso opposto, al ritorno, la chiamiamo uscita. Cosa facciamo, quindi, dentro le montagne? Viaggiamo, nel senso più proprio del termine.
Non è un caso che questo libro sia ospitato in una collana intitolata «Piccola filosofia di viaggio». L’editore Ediciclo l’ha mutuata dalla «Petite philosophie du voyage» della francese Transboréal. Il format italiano è identico: stessa grafica di copertina, stessa impostazione generale, numero di pagine fisso: novantasei.
È stato soprattutto lo spazio a disposizione a condizionare il mio lavoro. Non soltanto era pochissimo, ma anche prestabilito. Questo gioco, che inizialmente mi era apparso come un limite (riuscirò a farci stare tutto ciò che ho in mente?), si è rivelato invece un notevole aiuto: obbligato alla sintesi, ho dovuto asciugare e puntare al sodo. Quel che ne è venuto fuori non è proprio il libro che avrei voluto scrivere, ma gli si avvicina. Per il momento, lo ritengo il mio piccolo manifesto speleologico.
L’idea del libro è nata la scorsa primavera. Vittorio Anastasia, editore puro come ce ne sono pochi in Italia, evidentemente non pentito di avermi già pubblicato un libro qualche anno fa, mi ha mostrato la collana e, col suo fare proiettivo, mi ha chiesto: «Come lo vedresti un titolo sulle grotte?».
Da allora ho cominciato a pensarci. Nella memoria recavo impressa una gran quantità di appunti virtuali, oltre a quelli sparsi su decine di taccuini. Si trattava di tirare le somme, e di trovare il tempo per scrivere. Questo tempo l’ho trovato durante il campo speleologico sul Matese, l’agosto scorso. Mi ci è voluta una settimana, più o meno, per trasformare gli appunti mentali in annotazioni nero su bianco. Ho lavorato all’ombra della faggeta che mi è cara, a pochi metri dalla grotta in cui era ambientata la storia che volevo raccontare: l’abisso di Pozzo della Neve. L’atmosfera era quella giusta, con gli amici speleo che andavano e venivano, e il respiro della grotta proprio lì; potevo sentirlo, portato dallo svolazzare serale dei pipistrelli, e dal rincorrersi dei ghiri sui rami.
Nelle intenzioni iniziali dell’editore, il libro doveva essere un saggio, ma è venuta fuori una via di mezzo tra un racconto e un pamphlet. La stesura vera e propria l’ho fatta a settembre. Ho messo in pausa altri lavori, e in una settimana ho finito.
Per scattare una fotografia non ci vuole un quindicesimo, o un sessantesimo, o un millesimo di secondo, ma molto, molto più tempo; a volte una vita intera. E così, anche se uno butta giù un libro in una settimana, sicuramente ci ha lavorato a lungo. A questo, io ho dedicato una ventina d’anni.
Visto che il format del libro non prevedeva la possibilità di inserire ringraziamenti, li metto qui. La mia riconoscenza va alle decine, centinaia di speleologi che ho incontrato in tutti questi anni, quelli con cui ho condiviso il silenzio del mondo sotterraneo, quelli con cui ho costruito emozioni e sentimenti, quelli con cui ho viaggiato in paesi lontani, quelli che ho incontrato intorno a un tavolo. E ringrazio Paola Roli, che, da non speleologa e forse proprio per questo, ha saputo darmi quelle due o tre dritte che mi hanno aiutato a confezionare il libro in così poco tempo.
Il respiro delle grotte
Piccole divagazioni sulla profondità
Ediciclo editore, Collana Piccola filosofia di viaggio, 2013
96 pp., € 8,50 – ISBN: 978-88-6549-099-0
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